POSTE VATICANE 16^ EMISSIONE del 01 settembre 2022 di una serie di n.4 Cartoline, dedicate ad ANTONIO CANOVA, nel bicentenario della scomparsa

POSTE VATICANE 16^ EMISSIONE del 01 settembre 2022 di una serie di n.4 Cartoline, dedicate ad ANTONIO CANOVA, nel bicentenario della scomparsa

La serie di cartoline emessa quest’anno vuole celebrare il Bicentenario della morte di Antonio Canova. La custodia delle cartoline ritrae l’affresco rappresentante l’allegoria per il ritorno a Roma delle opere sottratte agli Stati Romani di Francesco Hayez, che decora la parete XXI del Museo Chiaramonti, voluto e fondato nel 1806 da Papa Pio VII Chiaramonti, allestito e ordinato dal Canova. Le cartoline, ritraggono rispettivamente: il Busto di Pio VII realizzato da Antonio Canova; una Veduta del Gabinetto del Cortile Ottagono con le sculture canoviane del Perseo trionfante e i due pugilatori Creugante e Damosseno; il documento manoscritto firmato da Antonio Canova, Ispettore Generale, con i “Giorni ne quali il Museo resterà chiuso”, e infine una veduta panoramica del Braccio Nuovo del Museo, costruito proprio per ospitare le opere rientrate dalla Francia. Nell’impronta di valore è rappresentato il Ritratto di Antonio Canova, realizzato dalla pittrice Maria Luigia Giuli Boccolini.

  • data: 01 settembre 2022
  • valore delle cartoline: € 1,20 – € 1,25 – € 2,40 – € 3,10
  • stamperia: Tipografia Vaticana
  • formato cartolina: 100 x 150 mm
  • formato impronta: 30 x 40 mm
  • prezzo della serie: € 7,95
  • tiratura : 7.000

Se sei interessato all’acquisto di questo set di Cartoline le puoi acquistare al prezzo di € 14,00 basta inviare una richiesta alla email:  protofilia1@gmail.com

Antonio Canova (Possagno, 1º novembre 1757 – Venezia, 13 ottobre 1822) è stato uno scultore e pittore italiano, ritenuto il massimo esponente del Neoclassicismo in scultura e soprannominato per questo «il nuovo Fidia».

Canova svolse l’apprendistato a Venezia. Nel 1779 si trasferì a Roma dove risiedette per il resto della sua vita: sebbene viaggiasse spesso, principalmente per soggiorni all’estero o per ritornare nei luoghi natii, l’Urbe per lui rappresentò sempre un imprescindibile punto di riferimento.

Intimamente vicino alle teorie neoclassiche di Winckelmann e Mengs, Canova ebbe prestigiosi committenti, dagli Asburgo ai Borbone, dalla corte pontificia a Napoleone, sino ad arrivare alla nobiltà veneta, romana e russa. Tra le sue opere più note si ricordano Amore e PsicheTeseo sul MinotauroAdone e VenereEbeLe tre Grazie, il Monumento funerario a Maria Cristina d’Austria, la Paolina BorgheseErcole e Lica e la Venere Italica.

Biografia

Infanzia e giovinezza

Contesto familiare

Antonio Canova nacque il 1º novembre 1757 a Possagno, centro trevigiano della pedemontana del Grappa, da Pietro Canova e Angela Zardo, detta Fantolin, appartenente a famiglia benestante di scalpellini, pratici d’architettura e per un tempo anche proprietari di cave a Possagno. Il giovane Canova a nemmeno quattro anni perdette il padre, «lavoratore in pietra e architetto». La madre, dopo non molto tempo, passò a seconde nozze con il crespanese Francesco Sartori; mentre lei, con l’occasione, tornava a Crespano, il piccolo Antonio rimase a Possagno, affidato alle cure del nonno paterno Pasino.

 Pasino Canova, nato a Possagno il 16 aprile 1711, era anch’egli un abile tagliapietre, noto nei paesi limitrofi per i suoi interventi scultorei in chiese e ville; era un uomo burbero e stravagante, che procurò non pochi maltrattamenti e mortificazioni all’animo assai sensibile del piccolo Canova, che assorbì questi eventi molto profondamente e ne restò segnato per tutta la vita.

Primi passi nella scultura

Malgrado la sua indole severa, Pasino si rivelò essere un valente insegnante per il nipote. Intuendo le inclinazioni e il talento artistico del piccolo Antonio, infatti, egli lo mise a lavorare e scolpire la pietra nel cantiere di villa Falier, dove attendeva ad alcuni lavori. Segnalandosi tra i più solerti nell’apprendere l’arte lapicida, Canova qui si attrasse la benevolenza di Giovanni Falier che, acceso dall’entusiasmo, lo sottrasse al nonno e si prese cura della sua formazione professionale, allocandolo presso la bottega di Giuseppe Bernardi, situata nella vicina Pagnano d’Asolo (non lontano da Possagno). Si racconta, addirittura, che Canova si guadagnò la commossa ammirazione del Falier quando, a una cena di nobili veneziani, egli incise nel burro la maestosa figura di un leone di San Marco ad ali spiegate, eseguito con tanta maestria che tutti i convitati ne rimasero meravigliati.

Nel 1768 il piccolo Tonin si trasferì nella bottega del Torretti a Venezia, città animata da profondi stimoli artistici e fermenti culturali; il contratto di garzonato gli garantiva vitto, alloggio e cinquanta soldi al giorno e gli consentiva inoltre di frequentare i corsi serali dell’Accademia di Nudo allestita a «Fontegheto de la Farina», in bacino San Marco. Grazie all’aiuto finanziario di nonno Pasino, che aveva venduto un piccolo podere, dal 1770 Canova poté lavorare solo metà giornata nella bottega (passata, dopo la morte del Torretti, a suo nipote Giovanni Ferrari), dedicando l’altra metà allo studio del materiale statuario della galleria di Ca’ Farsetti, a Rialto, ove erano raccolti calchi in gesso di statue antiche e moderne. L’esperienza lagunare lasciò un’impronta indelebile nel giovane Canova, che qui maturò un primo approccio (seppur mediato) con la cultura classica e apprese, oltre ai segreti per scolpire il marmo, anche come gestire economicamente e tecnicamente una bottega, conoscenze che certamente gli furono di giovamento quando se ne aprì una propria.

I primi lavori veneziani del Canova furono due Canestri di frutta (oggi al museo Correr) commissionati dal Falier ma indirizzati a Filippo Vincenzo Farsetti. Seguirono nell’ottobre 1773 una Euridice e un Orfeo in pietra di Costozza, eseguiti sempre su commissione del Falier. Canova terminò le statue due anni dopo e, esposte nel maggio 1776 alla fiera annuale dell’arte veneziana della festa della Sensa, riscossero uno sfolgorante successo, sancendo la sua ascesa nel mondo dell’arte.

Successi a Roma

Il primo soggiorno a Roma: dal 1779 al 1780

Grazie alle sue possibilità economiche nel 1777 Canova poté aprirsi un nuovo studio più ampio a San Maurizio, dove l’anno successivo fu impegnato nella realizzazione del gruppo raffigurante Dedalo e Icaro, su commissione del procuratore Pietro Vettor Pisani: l’opera consacrò il suo prestigio professionale nel mondo artistico veneziano, che finalmente poté prendere visione del suo talento. A testimonianza del suo riconoscimento artistico vi è la nomina del marzo 1779 a membro dell’Accademia Veneziana, cui Canova donò in segno di riconoscenza un Apollo in terracotta.

Gli venne addirittura offerta una cattedra d’insegnamento: Canova, tuttavia, non accettò, in quanto aveva da tempo maturato il desiderio di recarsi a Roma per perfezionare la propria arte, proposito ora finalmente realizzabile grazie ai cento zecchini guadagnati con l’esecuzione di Dedalo e Icaro. Fu così che Canova, partito da Venezia in ottobre 1779, dopo soste a Bologna e Firenze arrivò a Roma il 4 novembre 1779 in compagnia dell’architetto Gianantonio Selva: questo soggiorno, durato sino al 1780, si rivelerà molto proficuo non solo sotto il profilo artistico, ma anche sotto quello culturale e umano.

Grazie all’intercessione del Falier, il suo primissimo mecenate, appena giunto nell’Urbe Canova venne calorosamente accolto da Gerolamo Zulian, ambasciatore veneto presso la Santa Sede, che gli assegnò uno studio e un alloggio presso palazzo Venezia. Grazie ai puntuali diari che ci ha lasciato sappiamo che Canova visse intensamente le sue giornate capitoline, trascorse sin dall’arrivo a visitare – per usare una definizione di Quatremère de Quincy – il «museo di Roma», fatto «di statue, di colossi, di templi, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi». Gli vennero aperte le porte delle maggiori collezioni romane, come quella raccolta nei musei Vaticani (dove guardò con molto interesse all’Apollo del Belvedere) ed ebbe modo di frequentare la scuola di nudo all’Accademia di Francia e di recarsi assiduamente a teatro, mosso dal suo amore per lo spettacolo della danza. Lavorò inoltre per il pittore Pompeo Batoni, del quale apprezzò il «disegnare tenero, grandioso, di belle forme», e per un certo periodo si giovò anche della docenza dell’abate Foschi, messogli a disposizione da Zulian, con il quale poté colmare le proprie lacune culturali imparando l’italiano, l’inglese, il francese, leggendo i classici greci e latini, apprendendo la mitologia classica.

Grazie al sodalizio con Zulian e i Rezzonico, nipoti del defunto Clemente XIII, Canova poté entrare in amicizia sia con il cospicuo nucleo di artisti veneti insediatosi a Roma che con i vari artisti stranieri: fra quest’ultimi spiccava in particolare il boemo romanizzato Anton Raphael Mengs, il pittore-filosofo che, nella sua proposta di imitare i grandi maestri classici, realizzò quadri che erano delle vere e proprie illustrazioni delle teorie espresse dal tedesco Johann Joachim Winckelmann. In effetti, lo scultore Canova si sarebbe rivelato l’interprete più puntuale e coerente delle teorie espresse da Winckelmann e Mengs, in maniera analoga a come proprio in quegli anni il francese Jacques-Louis David era in pittura.

Dal soggiorno napoletano all’esecuzione del Teseo sul Minotauro

Tra il 22 gennaio e il 28 febbraio 1780 Canova fu a Napoli, ospite di Contarina Barbarigo. Nella città partenopea il Canova, oltre a visitare la collezione Farnese (ospitata nell’erigenda reggia di Capodimonte), visitò la cappella Sansevero: rimasto estasiato dal virtuosismo del Cristo velato ivi esposto (provò addirittura ad acquistarlo, e si dichiarò disposto a cedere dieci anni della sua vita pur di esserne l’autore), osservò con molta attenzione anche la statua della Pudicizia, scolpita dal conterraneo Antonio Corradini, scultore veneto assai celebrato per le sue figure velate.

In Campania, inoltre, Canova ebbe l’opportunità di scoprire l’immenso patrimonio archeologico rinvenuto presso i siti di Pompei, Ercolano e Paestum. Davanti allo spettacolo delle antichità del passato palesò non solo entusiasmo e adesione, ma anche il desiderio di studiare più approfonditamente la classicità, maturando così un’apertura sempre più consapevole verso le istanze neoclassiche.

Tornato a Roma, nel giugno 1780 Canova si fece spedire il gesso del Dedalo e Icaro, la scultura che sancì il suo definitivo decollo artistico. L’opera, tuttavia, venne accolta assai freddamente dagli accademici romani: tra i pochi ammiratori vi era Gavin Hamilton, un pittore e antiquario scozzese con il quale Canova si legherà di un’amicizia destinata a rivelarsi vincente e a durare per tutta la vita. Intanto, lo Zulian si era ormai convinto che il suo protégé avrebbe dato il meglio di sé solo se si fosse insediato stabilmente a Roma: sollecitato da quest’ultimo, Canova il 22 giugno 1780 partì per Venezia, così da chiudere lo studio lagunare e ultimare alcuni lavori, tra cui la statua del Poleni per il Prato della Valle di Padova.

 Ritornato a Roma a dicembre, Canova eseguì un Apollo che s’incorona su commissione del senatore Abbondio Rezzonico, nipote del papa, che predilesse l’opera canoviana rispetto alla Minerva pacifica del concorrente Giuseppe Angelini; nello stesso periodo ottenne dalla Serenissima la pensione triennale di 300 ducati in argento annui. Intanto, su suggerimento di Gavin Hamilton, Canova iniziò a lavorare al grande gruppo marmoreo raffigurante Teseo vincente sul Minotauro, che concepì come un vero e proprio manifesto della propria arte. L’opera fu terminata nel 1783, ed ebbe sin da subito uno smagliante successo sia in Italia che all’estero: con grande virtuosismo tecnico, infatti, Canova seppe infondere nella figura di Teseo quella «nobile semplicità e quieta grandezza» che Winckelmann considerava essere le qualità supreme dell’arte greca. Tra gli estimatori più convinti vi fu lo studioso francese Quatremère de Quincy, con il quale Canova strinse una rapida intesa culturale e un’amicizia destinata a durare per tutta la vita.

Nuovo Fidia

Sempre nel 1783 Canova ricevette la commissione del monumento funerario a Clemente XIV, da porre nella basilica dei Santi XII Apostoli. Complice la delusione amorosa con Domenica Volpato, Canova si dedicò con piena e totale dedizione di sé all’esecuzione del sepolcro, che completò nell’aprile del 1787 nel nuovo studio a via San Giacomo, dove si era trasferito terminata la pensione della Serenissima. L’opera, oltre a fruttargli diecimila scudi, lo consacrò quale massimo scultore del suo secolo: erano ormai chiare a tutti le potenzialità del Canova, che in quegli anni godette di un prestigio pari a quello di un Bernini o di un Michelangelo. Intanto, per cercare riposo dalle intense fatiche di scultore, soggiornò per un mese a Napoli, dove il colonnello inglese John Campbell gli commissionò un gruppo di marmo raffigurante Amore e Psiche.

Il successo riscosso dal sepolcro di Clemente XIV nel frattempo, sollecitò Don Giovanni Abbondio Rezzonico e i suoi fratelli, cardinali Carlo e Giovanni Battista, a commissionare al Canova il monumento funerario allo zio Clemente XIII, da collocarsi nella basilica di San Pietro. Opera che venne solennemente inaugurata nella notte del giovedì santo del 1792, alla presenza di Pio VI. Vestitosi da frate mendicante per poter meglio ascoltare i commenti, Canova poté facilmente appurare i consensi suscitati dall’opera, che fu grandemente apprezzata dal papa, dal Morghen, da Pietro Giordani.

La fama raggiunse Canova in fretta e in modo potente, tanto che a detta del Quatremère anche a Parigi «negli fogli publici s’è reso conto del suo ultimo modello». Ne conseguirono le numerose commissioni di rilevante importanza che gli vennero offerte in questo periodo: nel 1789 eseguì due statue di Amorini, uno per la principessa Lubomirska e uno per il colonnello Campbell, e dello stesso anno è la commissione di una Psiche fanciulla, ultimata nel 1792. Nel 1793, invece, portò finalmente a compimento l’Amore e Psiche: l’opera ebbe vastissima eco e fu universalmente apprezzata, trovando gli estimatori più appassionati nel poeta inglese John Keats, autore di una Ode to Psyche, e in John Flaxman, con il quale Canova si strinse in affettuosa amicizia.

L’intensa attività scultorea, tuttavia, aveva fiaccato notevolmente la salute del Canova, che iniziò ad accusare feroci dolori allo stomaco. Pertanto, per ristorare le proprie energie fisiche, nel maggio del 1792 prese la decisione di fare ritorno a Possagno. Era la prima volta da quando si era trasferito a Roma che rivedeva il paese natio, che gli riservò un’accoglienza degna di un eroe: scortato dai compaesani in festa, Canova poté finalmente salutare nonno Pasino e, a Crespano, la madre. Ricevuta a Venezia la commissione del monumento in memoria dell’ammiraglio Angelo Emo, lo scultore fece lentamente ritorno a Roma, facendo tappa a Padova, a Vicenza, a Verona, a Mantova, a Parma, a Modena e infine a Bologna, tutte città dove venne universalmente acclamato. I riflessi dell’arte canoviana arrivarono perfino in Russia, dove Caterina II cercò di chiamare lo scultore presso la propria corte: Canova, tuttavia, declinò il pur onorevole invito, e in segno di ringraziamento eseguì per conto dell’emissario dell’imperatrice una seconda versione dell’Amore e Psiche, oggi esposta all’Ermitage. In questi anni Canova fu letteralmente sommerso di commissioni, tanto che nel 1796 ammise al Selva che «se avessi parecchie mani tutte sarebbero impiegate»: tra le opere più notevoli di questo periodo si segnalano l’Ercole e Lica e l’Adone e Venere.

Canova e Napoleone

Dal punto di vista politico, tuttavia, questi erano anni assai turbolenti. Napoleone Bonaparte aveva già concluso vittoriosamente la prima campagna d’Italia, e il 19 febbraio 1797 fu firmato tra il generale corso e Pio VI il trattato di Tolentino, con il quale il pontefice si impegnò a cedere al vincitore opere d’arte e preziosi manoscritti, oltre che Avignone, il Contado Venassino e le Legazioni. Vi furono aspre polemiche, accese soprattutto da Quatremère de Quincy che a tal proposito scrisse una Lettres sur le projet d’enlever les monuments de l’Italie: ciò malgrado, il convoglio con le opere d’arte (fra cui il Laocoonte e l’Apollo del Belvedere) partì da Roma il 9 maggio 1797.

Anche Canova fece le spese di questa instabilità geopolitica, tanto che nella primavera del 1797 la sua pensione vitalizia venne sospesa e, nonostante le enfatiche rassicurazioni del Bonaparte (egli stesso contattò il Canova informandogli che aveva «un droit particulier à la protection de l’Armée d’Italie»), non gli venne mai più ripristinata. Giudicando pericoloso rimanere a Roma, nel 1798 fece ritorno a Possagno, e si spinse addirittura in Austria, dove fu accolto assai calorosamente dalla corte di Francesco II d’Asburgo-Lorena, che si offrì di confermargli la pensione vitalizia: Canova tuttavia rifiutò, non volendo precludersi la possibilità di tornare a Roma. Accettò, invece, di eseguire il grande deposito funebre per Maria Cristina d’Austria nella chiesa viennese di Sant’Agostino, su commissione del duca Alberto di Sassonia-Teschen, marito della defunta. La lettera con le disposizioni finali venne scritta il 15 maggio 1799 e inviata a Possagno, dove risiedeva l’artista. L’opera, assai rappresentativa del clima tardo-settecentesco della poesia sepolcrale, venne poi completata da Canova nel 1805.

Lasciata Vienna, Canova si recò a Praga, a Dresda, Berlino e Monaco, per poi fare ritorno nella natia Possagno e, infine, a Roma, che ritenne alla fine l’unica città congeniale al suo virtuosismo artistico. Il 5 gennaio 1800, superando le solite gelosie dei colleghi, Canova venne perfino nominato accademico di San Luca, di cui diventò presidente nel 1810 e presidente perpetuo nel 1814. Si trattò di un ulteriore successo nella fama del Canova, che iniziò a essere richiesto nelle corti di tutta Europa: anche Napoleone, nel 1803, volle un ritratto che recasse la sua firma. Canova inizialmente si dimostrò assai riluttante a mettere la propria arte a servizio di colui che era stato il carnefice della Repubblica Veneta, ceduta all’Austria in seguito alla stipula del trattato di Campoformio: sollecitato da Pio VII (il quale era a sua volta mosso da motivi di opportunismo politico), tuttavia, Canova partì per Parigi, dove giunse il 6 ottobre 1801.

Soggiorno a Parigi, La Venere italica e Paolina Borghese

Ospitato nel palazzo del nunzio pontificio Caprara, Canova a Parigi divenne l’artista ufficiale del regime napoleonico. La prima opera che eseguì in Francia fu un colossale ritratto del Bonaparte nelle sembianze di Marte pacificatore, in cui il generalissimo era raffigurato nudo con clamide su una spalla, una vittoria in una mano e lancia nell’altra. Canova pensava di aver realizzato un’opera destinata a rimanere celebre: ciò non accadde, poiché Napoleone, nel vedersi completamente svestito, temette i giudizi dei Parigini e ordinò di riporre la statua nei depositi del Louvre e di ricoprirla con un velo. Per la continua emorragia di opere d’arte italiane, asportate in Francia con le spietate spoliazioni napoleoniche. Pertanto, nonostante le insistenze di Napoleone perché si fermasse stabilmente a Parigi, Canova decise di ritornare in Italia.

Ritornato a Roma, Canova fu accolto assai calorosamente: Angelica Kauffmann, addirittura, gli offrì un pranzo presso la propria dimora, in cui gli venne fatto dono di varie raffigurazioni di Vincenzo Camuccini dove egli è ritratto mentre viene incoronato da una personificazione del Tevere. Divenuto socio dell’Accademia meneghina di Belle Arti ed «ispettore generale di tutte le Belle Arti per Roma e lo Stato pontificio, con sovrintendenza ai musei Vaticano e Capitolino e all’Accademia di San Luca», Canova in questi anni lavorò al monumento sepolcrale per Maria Cristina (come già accennato terminato nel 1805) e al deposito funebre per Vittorio Alfieri, scomparso nell’ottobre del 1803; nel 1806 invece Giuseppe Bonaparte gli commise un monumento equestre del fratello imperatore da collocare in una piazza pubblica. Famoso un aneddoto raccontato da Antonio Canova nei suoi scritti che riguarda l’Ercole Farnese. Il 12 ottobre 1810 lo scultore venne presentato a Napoleone dal general Duroc per esprimere il desiderio di rientrare in Italia, ma Napoleone oppose: “Questo è il vostro centro, qui vi sono tutti i capi d’arte antichi; non manca che l’Ercole Farnese, ma avremo anche quello”. Al che Canova rispose: “Lasci Vostra Maestà almeno qualche cosa all’Italia. Questi monumenti antichi formano catena e collezione con infiniti altri che non si possono trasportare né da Roma né da Napoli”.

Per il trasferimento in Francia della Venere de’ Medici, rastrellata dai francesi tra i furti napoleonici, Canova scolpì come compensazione la Venere Italica per la città di Firenze, che la pose nella Tribuna degli Uffizi, che precedentemente ospitava la Venere de’ Medici ormai al Louvre. A tale opera lo scultore si ispirò idealmente, a livello più che altro spirituale, cercando di rievocarne la tenerezza della carne, il suo dolce vibrare, il movimento nello spazio, che rende attraverso l’articolazione libera del corpo e la delicatezza delle sfumature. Ugo Foscolo farà un confronto tra la Venere de’ Medici e Venere Italica, ovvero tra il classico e il neoclassico, e dirà della prima: “Lusinga il paradiso in questa valle di lacrime”, volendo esprimere con queste parole la superiorità della statua dello scultore neoclassico, questa dea più reale, quindi più desiderabile, oltre che la sofferenza per i furti napoleonici che in quel periodo andavano depauperando il patrimonio italiano.

Nel frattempo, per lo scultore si moltiplicarono i riconoscimenti accademici. Ma ad accrescere maggiormente il suo prestigio fu l’esecuzione del ritratto di Paolina Bonaparte Borghese nelle sembianze di una Venere vincitrice: l’opera, terminata nel 1808, raffigura la sorella di Napoleone adagiata su un divano, con in mano il pomo della vittoria, con un virtuosismo tale da far assurgere la donna a dignità della dea. Sempre in questo periodo strinse amicizia con Leopoldo Cicognara, il conte ferrarese che gli affidò la protezione di un giovane Francesco Hayez (futuro caposcuola della scuola romantica italiana).

Fine dell’epoca napoleonica

Ancora stavolta, tuttavia, le vicissitudini belliche operate sotto l’egida di Napoleone turbarono profondamente Canova, che visse «giorni tristissimi» (come attesta un’incisione sulla Danzatrice col dito al mento) assistendo silenziosamente all’occupazione di Roma da parte dei Francesi (1808) e alla conseguente unione degli Stati Pontifici all’Impero Francese. Ciò malgrado, nel 1810 accettò comunque di recarsi a Parigi su invito del generale Duroc, che gli commissionò la statua dell’Imperatrice Maria Luisa: dopo una brevissima sosta a Firenze, effettuata per attendere all’inaugurazione del monumento a Vittorio Alfieri a Santa Croce, Canova partì immediatamente dopo alla volta della Francia. Giunto a Fontainebleau l’11 ottobre 1810, già il 29 ottobre poté mostrare al committente il modello in creta della statua. Canova, tuttavia, si intrattenne poco in Francia, tanto che dopo aver ottenuto notevoli benefici e donazioni per l’Accademia di San Luca (della quale divenne principe prima della partenza), si incamminò sulla via del ritorno, nonostante le lusinghe di Napoleone.

Nonostante le difficoltà incontrate con il gentil sesso, questo si rivelò un periodo artistico assai fecondo per il Canova. Nel 1814 gli venne commissionata da Giuseppina di Beauharnais, prima moglie di Napoleone, il gruppo scultoreo delle Tre Grazie, che verrà riprodotto una seconda volta in un gruppo stavolta destinato a John Russell, sesto duca di Bedford. L’opera, una delle più famose di Canova, traduce nel marmo il concetto squisitamente neoclassico dell’eternità della bellezza serenatrice, ben rappresentato nei volti delle tre fanciulle; tra gli estimatori più entusiasti delle Grazie vi troviamo il poeta italiano Ugo Foscolo, autore del poema omonimo delle Grazie.

Quando ormai, dopo Lipsia, la fortuna di Napoleone volgeva al tramonto, il Canova, che fu sempre critico verso le spoliazioni artistiche perpetrate da quest’ultimo, venne incaricato di recarsi a Parigi per recuperare tutte le opere d’arte rubate in forza del trattato di Tolentino ed oggetto delle spoliazioni napoleoniche. Non senza difficoltà (la situazione a Parigi era a dire lo scultore «disperata», e Francesi e Russi si opponevano categoricamente a un’eventuale riconsegna), grazie all’intervento di Klemens von Metternich Canova riuscì a ottenere la restituzione delle opere d’arte.

Ultimi anni

Tornato a Roma la sera del 3 gennaio 1816, Canova fu prontamente ricevuto dal pontefice che, in segno di ringraziamento per aver recuperato le opere d’arte italiane trafugate in Francia, lo insignì del titolo di «marchese d’Ischia» e lo ascrisse nel libro d’Oro del Campidoglio: come stemma del marchesato Canova scelse la lira e la serpe (simboli rispettivamente di Orfeo ed Euridice) «in memoria delle mie prime Statue… dalle quali… devo riconoscere il principio della mia esistenza civile».

Intanto, dopo aver ultimato nel 1816 la statua della Musa Polimnia, nel 1818 Canova fu esortato dai suoi compaesani di Possagno ad intervenire in una vecchia chiesa parrocchiale del paese: lo scultore, tuttavia, prese «la risoluzione di farne edificare una nuova, a mie spese», erigendo un tempio con pianta circolare con un pronao a colonne doriche, su esempio del Pantheon di Roma e del Partenone di Atene. Scegliendo di collocare la chiesa ai piedi del monte dominante la Val Cavasia, Canova partì prontamente per Possagno così da assistere personalmente alla posa della prima pietra della fabbrica, celebrata l’11 luglio 1818 in una festosa cerimonia: lo scultore non assistette mai all’ultimazione del proprio tempio, che verrà completato solo nel 1830, dieci anni dopo la sua morte. Afflitto dalla dissenteria e dall’acuirsi delle debolezze di stomaco (che lo tormentò sin da quando scolpì il Monumento a Clemente XIII), nei suoi ultimi anni di vita Canova attese all’esecuzione di diverse opere: si segnalano, in particolare, il busto di Eleonora d’Este, una Vestalis, la Beatrice per Leopoldo Cicognara e il cavallo della statua equestre di Ferdinando I per piazza Plebiscito a Napoli. Quando terminò quest’ultima commissione, il tracollo fisico era ormai prossimo: recatosi a Possagno il 7 settembre 1822 nella speranza di trarne giovamento, la morte lo colse la mattina del 13 ottobre 1822 a Venezia, nella casa del vecchio amico Florian, nei pressi di piazza San Marco. Canova ebbe due funerali: di questi, i primi furono celebrati nella natia Possagno il 25 ottobre, con l’orazione funebre tenuta dal vescovo di Ceneda. I secondi si tennero invece a Roma il 31 gennaio 1823, con grandissimo concorso di folla, nella chiesa dei Santissimi Apostoli; a rendere gli estremi onori allo scultore vi erano il camerlengo e il Senato di Roma, ma anche il poeta Giacomo Leopardi, che pure espresse la sua compiacenza di aver salutato «il gran Canova». Le sue spoglie furono infine riposte in un sepolcro nel tempio di Possagno da lui ideato, mentre il suo cuore fu onorevolmente disposto in un vaso di porfido conservato a Venezia all’interno del Monumento funebre ad Antonio Canova nella Basilica dei Frari (articolo parzialmente estrapolato dal sito Wikipedia).

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