M.I.S.E. 31^-32^ EMISSIONE DI due francobolli celebrativi, dello scontro navale di Lepanto tra la Lega Santa e la Sublime Porta e dell’Ordine Militare e Religioso di Santo Stefano Papa e Martire

Il Ministero dello Sviluppo Economico, emette il 18 giugno due francobolli celebrativi, dello scontro navale di Lepanto tra la Lega Santa e la Sublime Porta, nel 450° anniversario, e dell’Ordine Militare e Religioso di Santo Stefano Papa e Martire, nel 460° anniversario della costituzione, con tariffe, rispettivamente, A – zona 1 e B, corrispondenti rispettivamente ad €3.50 e 1.10.

Se sei interessato all’acquisto di questi francobolli li puoi acquistare al prezzo di € 6.50 inviandomi una richiesta alla mia email: protofilia1@gmail.com

  • data: 18 giugno 2021
  • dentellatura: 11
  • stampa: rotocalcografia
  • tipo di cartacarta bianca, patinata gommata, autoadesiva, non fluorescente
  • colori: cinque
  • stampato: I.P.Z.S. Roma
  • tiratura: 300.000
  • francobollo dimensioni: 40 x 30 mm
  • valoreA zona 1= €3.50
  • bozzettistaErnando Venanzi
  • num. catalogo francobolloMichel______ YT _______ UNIF ________
  • Il francobollo: La vignetta riproduce la galena stefaniana a Lepanto. Ernando Venanzi. Collezione Famiglia Ascani; è riprodotta la croce stefaniana, emblema dell’Ordine Militare e Religioso di Santo Stefano Papa e Martire. Completa il francobollo le rispettive leggende “Battaglia Navale di Lepanto”, “7 ottobre 1571”, la Scritta “Italia” e le rispettiva indicazioni tariffaria “A zona 1”.

La battaglia di Lepanto , detta anche battaglia delle Echinadi o Curzolari, fu uno scontro navale avvenuto il 7 ottobre 1571, nel corso della guerra di Cipro, tra le flotte musulmane dell’Impero ottomano e quelle cristiane (federate sotto le insegne pontificie) della Lega Santa. L’impero spagnolo e la Repubblica di Venezia erano le principali potenze della coalizione, poiché la lega era in gran parte finanziata da Filippo II di Spagna e Venezia era il principale contributore di navi.

La metà delle navi proveniva della Repubblica di Venezia e l’altra metà composta congiuntamente dalle galee dell’Impero spagnolo (con il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia), dello Stato Pontificio, della Repubblica di Genova,] dei Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del Granducato di Toscana, del Ducato di Urbino, della Repubblica di Lucca (che partecipò all’armamento delle galee genovesi), del Ducato di Ferrara e del Ducato di Mantova. Questa flotta dell’alleanza cristiana era composta da 40.000 marinai e rematori. Inoltre, trasportava circa 20.000 truppe da combattimento: 7.000 fanteria regolare spagnola, 7.000 tedeschi,[  6.000 mercenari italiani pagati dalla Spagna,  oltre a 5.000 soldati veneziani professionisti. La battaglia, la quarta in ordine di tempo e la maggiore, si concluse con una schiacciante vittoria delle forze alleate, guidate da Don Giovanni d’Austria, su quelle ottomane di Müezzinzade Alì Pascià, che morì nello scontro.

Antefatto

La coalizione cristiana era stata promossa alacremente da Papa Pio V per soccorrere materialmente la veneziana città di Famagosta, sull’isola di Cipro, assediata dai turchi e strenuamente difesa dalla guarnigione locale comandata da Marcantonio Bragadin e Astorre II Baglioni. L’isola, già possedimento bizantino, faceva parte del dominio di Venezia dal 1480 e per essa veniva pagato ai turchi un tributo annuo di 8.000 ducati. Il sultano si sentì dunque legittimato a rivendicare il controllo di Cipro, giovandosi, fra l’altro, del favore con cui auspicava sarebbe stata accolta la dominazione turca dalla popolazione locale, che rimproverava ai veneziani un’eccessiva ingerenza e un troppo duro sfruttamento. Il contesto è quello di una lotta per il controllo del Mediterraneo. Benché tra Oriente e Occidente gli scambi di persone, merci, denaro e tecniche fossero sempre intensissimi, il crescente espansionismo ottomano in quegli anni preoccupava sempre più i governi dell’occidente mediterraneo. Esso minacciava non solo i possedimenti veneziani come Cipro, ma anche gli interessi spagnoli per via della pirateria che imperversava nelle coste del Mediterraneo occidentale e della penisola italiana. Consapevole di questa tensione crescente, Pio V ritenne allora che il momento fosse propizio per coalizzare in una Lega Santa le troppo divise forze della cristianità, alimentando lo spirito di Crociata per creare coesione intorno all’iniziativa.

SCHIERAMENTO

Flotta della Lega Santa

Secondo la descrizione data dal Summonte, l’armata della Lega Santa era divisa in 4 parti, Corno destroCorno sinistro, la parte centrale o Battaglia e la riserva o Soccorso.

Il centro dello schieramento cristiano cattolico si componeva di 28 galee e 2 galeazze veneziane, 15 galee spagnole e napoletane, 8 galee genovesi, 7 galee toscane sotto le insegne pontificie, 3 maltesi e 1 sabauda, per un totale di 62 galee e 2 galeazze. Lo comandava Don Juan de Austria (Don Giovanni d’Austria), Comandante generale dell’imponente flotta cristiana: ventiquattrenne figlio illegittimo del defunto Carlos I de España (imperatore Carlo V) e fratellastro del regnante Felipe II de España (Filippo II), aveva già dato ottima prova di sé nel 1568 contro i corsari barbareschi. Con lui era a bordo Francesco Maria II della Rovere, figlio ed erede del duca Guidobaldo II della Rovere e Capitano generale degli oltre 2.000 soldati volontari provenienti dal Ducato d’Urbino. Per ragioni di prestigio affiancavano la Real spagnola: la Capitana di Sebastiano Venier, settantacinquenne Capitano generale veneziano, la Capitana di Sua Santità di Marcantonio Colonna, trentaseienne ammiraglio pontificio, la Capitana di Ettore Spinola, Capitano generale genovese, la Capitana di Andrea Provana di Leinì, Capitano generale piemontese, l’ammiraglia Santa Maria della Vittoria del priore di Messina Pietro Giustiniani, Capitano generale dei Cavalieri di Malta.

Il corno sinistro si componeva di 40 galee e 2 galeazze veneziane, 10 galee spagnole e napoletane, 2 galee toscane sotto le insegne pontificie e 1 genovese, per un totale di 53 galee e 2 galeazze al comando del provveditore generale Agostino Barbarigo, ammiraglio veneziano (da non confondere con l’omonimo doge veneziano).

Il corno destro era invece composto di 25 galee e 2 galeazze veneziane, 16 galee genovesi, 8 galee spagnole e siciliane, 2 sabaude e 2 toscane sotto le insegne pontificie, per un totale di 53 galee e 2 galeazze, tenute dal genovese Gianandrea Doria.

Le spalle dello schieramento erano coperte dalle 30 galee di Álvaro de Bazan di Santa Cruz: 13 spagnole e napoletane, 12 veneziane, 3 toscane sotto le insegne pontificie, 2 genovesi. L’avanguardia, guidata da Giovanni de Cardona, si componeva di 8 galee: 4 siciliane e 4 veneziane.

Flotta ottomana

La flotta turca schierata a Lepanto, reduce dalla campagna navale che l’aveva impegnata durante l’estate, era verosimilmente forte di 170-180 galee e 20 o 30 galeotte, cui si aggiungeva un imprecisato numero di fuste e brigantini corsari. La forza combattente, comprensiva di giannizzeri (in numero tra 2.500 e 4.500), spahi e marinai, ammontava a circa 20-25.000 uomini. Di questi, sicuramente armata d’archibugio era la fanteria scelta dei giannizzeri, mentre la gran parte degli altri combattenti era armata di arco e frecce. La flotta ottomana, inoltre, era munita di minore artiglieria rispetto a quella cristiana: circa 180 pezzi di grosso e medio calibro e meno della metà degli oltre 2.700 pezzi di piccolo calibro imbarcati dal nemico.

I turchi schieravano l’ammiraglio Mehmet Shoraq, detto Scirocco, all’ala destra, mentre il comandante supremo Müezzinzade Alì Pascià (detto il Sultano) al centro conduceva la flotta a bordo della sua ammiraglia Sultana, su cui sventolava il vessillo verde sul quale era stato scritto 28.900 volte a caratteri d’oro il nome di Allah. Infine l’ammiraglio, considerato il migliore comandante ottomano, Uluč Alì, un apostata di origini calabresi convertito all’Islam (detto Ucciallì oppure Occhialì), presiedeva all’ala sinistra; le navi schierate nelle retrovie erano comandate da Murad Dragut (figlio dell’omonimo Dragut Viceré di Algeri e Signore di Tripoli, che era stato uno dei più tristemente noti pirati barbareschi).

SCONTRO

Con il vento a favore e producendo un rumore assordante di timpani, tamburi e flauti, i turchi cominciarono l’assalto alle navi della Lega cristiana che erano invece nel più assoluto silenzio. Improvvisamente, intorno alle ore 12, il vento cambiò direzione: le vele dei turchi si afflosciarono e quelle dei cristiani si gonfiarono.

Quando i legni giunsero a tiro di cannone delle galeazze i cristiani ammainarono tutte le loro bandiere e Don Giovanni innalzò lo stendardo di Lepanto con l’immagine del Redentore crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea, i combattenti ricevettero l’assoluzione secondo l’indulgenza concessa da papa Pio V per la crociata e i forzati liberati dalle catene. Nell’animazione del momento, Giovanni d’Austria, ordinando di dare fiato alle trombe, sulla piazza d’armi della sua galera, con due cavalieri si mise a ballare a vista di tutta l’armata una concitata danza, chiamata dagli Spagnoli la gagliarda.

La prima azione della battaglia da parte della Lega fu l’ordine di Doria di prendere il largo allontanandosi dal resto della flotta; al vedere ciò Alì Pascià, ritenendo che fosse nell’intenzione del Doria abbandonare il campo di battaglia, gli fece mandare un tiro di cannone, cui però il Doria non rispose; Giovanni d’Austria, vedendo ciò, fece rispondere dalla sua galera con un tiro di cannone in segno di accettazione della sfida.

Don Giovanni d’Austria perciò puntò fulmineamente diritto contro la Sultana di Alì, che riuscì a evitare il fuoco di fila delle bordate delle galeazze, poste circa un miglio più avanti rispetto alla flotta della coalizione e i cui proiettili erano stati studiati in modo che, uscendo dai fusti dei cannoni, si aprissero in due semisfere unite da catene che andavano a spezzare le alberature delle galee ottomane, oltrepassandole per attaccare le galee nemiche. Il reggimento di Sardegna diede per primo l’arrembaggio alla nave turca, che divenne il campo di battaglia: i musulmani a poppa e i cristiani a prua.

Per i cristiani gli scontri coinvolsero all’inizio il veneziano Barbarigo, alla guida dell’ala sinistra e posizionato sotto costa. Egli dovette parare il colpo del comandante Scirocco ed impedire che il nemico potesse insinuarsi tra le sue navi e la spiaggia per accerchiare la flotta cristiana. La manovra ebbe solo un parziale successo e lo scontro si accese subito violento. La stessa galea di Barbarigo diventò teatro di un’epica battaglia nella battaglia, con almeno due capovolgimenti di fronte; all’infuriare dello scontro il Barbarigo si alzò la celata dell’elmo per poter impartire gli ordini con più libertà e fu colpito a un occhio da una freccia nemica. Le retrovie dovettero correre in soccorso dei veneziani per scongiurare la disfatta, ma, grazie all’arrivo della riserva guidata dal Marchese di Santa Cruz, le sorti si riequilibrarono e così Scirocco venne catturato, ucciso e immediatamente decapitato.

Al centro degli schieramenti Alì Pascià cercò e trovò la galea di Don Giovanni d’Austria, la cui cattura avrebbe potuto risolvere lo scontro. Contemporaneamente altre galere impegnarono Venier e Marcantonio Colonna. Più volte le truppe cristiane dimostrarono gran coraggio: l’equipaggio della galera toscana Fiorenza dell’Ordine di Santo Stefano fu quasi interamente ucciso, eccetto il suo comandante Tommaso de’ Medici con quindici uomini. Al terzo assalto i sardi arrivarono a poppa. Don Giovanni fu ferito a una gamba. Più volte le navi avanzarono e si ritirarono e Venier e Colonna dovettero disimpegnarsi per accorrere in aiuto a Don Giovanni, che sembrava avere la peggio assieme all’onnipresente Marchese di Santa Cruz. Alla sinistra turca, al largo, la situazione era meno cruenta, ma un po’ più complicata. Giovanni Andrea Doria disponeva di poco più di 50 galee, quasi quante quelle del veneziano Barbarigo (circa 60) sul corno opposto, ma davanti a sé trovò 90 galere, cioè circa il doppio dei nemici fronteggiati dai veneziani e oltretutto in un’area molto più ampia di mare aperto; per questo pensò a una soluzione diversa dallo scontro diretto. Giovanni Andrea Doria, infatti, a un certo momento della battaglia cominciò una manovra di allargamento verso il mare aperto del corno al suo comando, in reazione a un’analoga manovra del corno sinistro della flotta ottomana, che minacciava di aggiramento il resto della flotta cristiana.

EPILOGO

Al centro, il comandante in capo ottomano Müezzinzade Alì Pascià, già ferito, cadde combattendo. La nave ammiraglia ottomana fu abbordata dalle galee toscane Capitana e Grifona e, contro il volere di Don Giovanni, il cadavere dell’ammiraglio ottomano Alì Pascià fu decapitato e la sua testa esposta sull’albero maestro dell’ammiraglia spagnola. La visione del condottiero ottomano decapitato contribuì enormemente a demolire il morale dei turchi. Di lì a poco, infatti, alle quattro del pomeriggio, le navi ottomane rimaste abbandonavano il campo, ritirandosi definitivamente. Il teatro della battaglia si presentava come uno spettacolo apocalittico: relitti in fiamme, galee ricoperte di sangue, uomini morti o agonizzanti. Erano trascorse quasi cinque ore e il giorno volgeva ormai al tramonto quando infine la battaglia ebbe termine con la vittoria cristiana.

Don Giovanni d’Austria riorganizzò la flotta per proteggerla dalla tempesta che minacciava la zona e inviò galee in tutte le capitali della lega per annunciare la clamorosa vittoria: i turchi avevano perso 80 galee che erano state affondate, ben 117 vennero catturate, 27 galeotte furono affondate e 13 catturate, inoltre 30.000 uomini persi tra morti e feriti, altri 8.000 prigionieri. Inoltre vennero liberati 15.000 cristiani dalla schiavitù ai banchi dei remi. I cristiani liberati dai remi sbarcarono a Porto Recanati e salirono in processione alla Santa Casa di Loreto dove offrirono le loro catene alla Madonna. Con queste catene furono costruite le cancellate davanti agli altari delle cappelle. Gli Ottomani avevano salvato un terzo (circa 80) delle loro navi e se tatticamente si trattò di una decisiva vittoria cristiana, la dimensione della vittoria strategica è dibattuta: secondo alcuni la sconfitta segnò l’inizio del declino della potenza navale ottomana nel Mediterraneo.

Altri fanno notare che la flotta turca si riprese rapidamente, riuscendo già l’anno successivo a mettere in mare un grosso contingente di navi, grossomodo equivalente a quelle messe in campo dalla Lega. Queste flotte erano però meno armate e addestrate delle precedenti, e dopo Lepanto la flotta turca evitò a lungo di ingaggiare grandi battaglie, dedicandosi invece con successo alla guerra di corsa e al disturbo dei traffici nemici. Anche da parte cristiana si riaffermò una pirateria attiva. Dopo Lepanto gli occidentali ebbero a disposizione migliaia di prigionieri che furono messi ai remi assicurando, per diversi anni, un motore nuovo alle loro galere.[49] La vittoriosa guerra di Candia, alla metà del XVII secolo, mostra che il vigore delle forze turche era ancora temibile nel Mediterraneo orientale. Tuttavia con l’inizio di una lunga serie di guerre con la Persia, che proseguirono nel Caucaso e in Mesopotamia per tutti gli anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la flotta della Sublime porta fu messa in parziale disarmo e ridotta.

Inoltre la flotta da guerra turca rimase numericamente paragonabile a quella veneziana fino alla fine del XVIII secolo. I morti di nobiltà cattolica vennero sepolti nella chiesa dell’Annunziata a Corfù (spostati dopo il bombardamento dei tedeschi del 13 settembre 1943 al cimitero cattolico di Corfù) mentre i morti nobili di religione ortodossa (piuttosto Corfioti) furono sepolti nella chiesa di S. Nicola nominata “Dei Vechi” e quelli non nobili in una chiesetta fuori le mura di Corfù denominata fin da allora “Dei martiri”. Molti prigionieri ottomani, in particolare gli abilissimi e addestratissimi arcieri e i carpentieri, furono uccisi dai veneziani, sia per vendicare i prigionieri uccisi dai turchi in precedenti occasioni, sia per impedire alla marineria turca di riprendersi rapidamente. Quindi le navi fecero rientro a Napoli. La bandiera della nave ammiraglia turca di Alì Pascià, presa da due navi dei Cavalieri di Santo Stefano, la “Capitana” e la “Grifona”, si trova a Pisa, in quella che era la chiesa di quell’ordine. (notizie estrapolate parzialmente da Wikipedia)

  • data: 18 giugno 2021
  • dentellatura: 11
  • stampa: rotocalcografia
  • tipo di cartacarta bianca, patinata gommata, autoadesiva, non fluorescente
  • colori: cinque
  • stampato: I.P.Z.S. Roma
  • tiratura: 300.000
  • francobollo dimensioni: 40 x 30 mm
  • valoreB = €1.10
  • bozzettista:  Centro Filatelico della Direzione Operativa dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A.
  • num. catalogo francobolloMichel______ YT _______ UNIF ________
  • Il francobollo: La vignetta riproduce in entrambe le vignette è riprodotta la croce stefaniana, emblema dell’Ordine Militare e Religioso di Santo Stefano Papa e Martire. Completa il francobollo la rispettiva leggenda “Ordine Militare e Religioso di Santo Stefano Papa e Martire”, “460° Anniversario”, “Il Volterrano”, la Scritta “Italia” e la rispettiva indicazioni tariffaria “B”.

L’Insigne sacro e militare ordine di Santo Stefano papa e martire è un ordine religioso cavalleresco di fondazione pontificia (Bolla His quae del 1º febbraio 1562 di Pio IV), con doppia personalità giuridica, cioè canonica (attualmente Associazione pubblica di fedeli di fondazione pontificia).È riconosciuto dal Governo Italiano come Ordine dinastico estero.  e civile.

Fu di collazione della casa granducale di Toscana, così come l’Ordine del Merito sotto il titolo di San Giuseppe e l’Ordine del merito civile e militare.

FONDAZIONE

Dopo vari tentativi di Cosimo de’ Medici duca di Firenze e di Siena, fu solo con l’ascesa al soglio papale di papa Pio IV, favorevole alla casa dei Medici, che poté essere fondato l’Ordine di Santo Stefano papa e martire, consacrato sotto la regola benedettina, in memoria della vittoria riportata sui francesi del maresciallo Strozzi del 2 agosto 1554 contro Siena, festa di santo Stefano papa e martire, per altri dal giorno della vittoria di Cosimo nella battaglia di Montemurlo (1º agosto 1537). Fu lo stesso papa Pio IV che con la solenne bolla His quae del 1º febbraio 1562 ne decretò la costituzione (“perpetuo erigimus ac instituimus”) e ne approvò lo Statuto (“statuimus ac ordinamus”), dando il gran magistero (“ufficio ecclesiastico”) “in affidamento” (“perpetuo constituimus et deputamus”) a Cosimo de’ Medici duca di Firenze e poi Granduca di Toscana e ai suoi successori, cosicché l’Ordine fu definito una quasi religio. Il primo gran maestro fu quindi Cosimo e poi i suoi successori, i granduchi di Toscana prima di casa Medici e poi di casa Asburgo-Lorena (il passaggio del Gran Magistero ai Lorena fu confermato da papa Benedetto XIV con il breve “Praeclara Militiae” dell’8 giugno 1748).

La prima sede dell’Ordine fu Portoferraio nell’isola d’Elba, poi Pisa in via definitiva. La piazza dei Cavalieri prende il nome proprio da quest’ordine, così come la chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri. Le insegne dell’ordine sono la croce rossa a otto punte bordata d’oro in campo bianco, accantonata da gigli d’oro. I suoi cavalieri erano “nobili, militari, cavalieri di giustizia, serventi e fratelli d’armi” e per essere ammessi dovevano dimostrare quattro gradi di nobiltà paterna e materna.

Diffusione

Il successo dell’ordine fu notevole e si estese anche fuori dai confini della Toscana, tra gli altri stati italiani ed esteri, lasciando una eccellente fama. La sua missione era di liberare il Mediterraneo dai pirati musulmani e i cristiani dalla schiavitù ottomana.

Nel 1587, con bolla papale e su sollecitazione del granduca di Toscana, subentrò nei beni del soppresso Ordine di San Giacomo d’Altopascio, detto anche dei cavalieri del Tau, ordine religioso cavalleresco nato intorno al 1050. “Con la incorporazione da parte della Santa Sede dell’Ospedale di S. Jacopo dell’Altopascio, eretto in Religione nel 1239 (anche se la comunità esisteva fin dal 952), nell’Ordine di S. Stefano si ribadiva la qualità di quest’ultimo come ente canonico e si dava allo stesso una maggiore patente d’antichità, perché come successore dell’Altopascio poteva affondare le sue radici legali al XIII secolo” (Neri Capponi).

Campagne militari

Le campagne militari possono essere riassunte in tre fasi:

  1. la prima (anni verso il 1570) vide l’Ordine schierato a fianco della Spagna contro gli Ottomani, con la difesa di Malta (1565), la battaglia di Lepanto (1571) partecipandovi con dodici galee e la presa di Bona in Algeria;
  2. la seconda, dopo il riconoscimento delle qualità aggressive dell’Ordine, contro turchi e barbareschi lungo le coste del Mediterraneo; risalgono a questo periodo una serie di incursioni sulle isole dell’Egeo tenute dai turchi, le campagne in Dalmazia e Negroponte e la guerra di Corfù;
  3. la terza (attorno al 1640) con una diminuzione dell’attività militare in favore di compiti di rappresentanza e di difesa della costa; risale a questo periodo un aiuto ai veneziani contro gli ottomani (guerra di Candia).

L’ultima azione militare risale al 1719: il granduca Pietro Leopoldo alla fine del Settecento ne promosse una riorganizzazione interna, eliminandone la componente militaresca e riciclandolo come l’istituto per la preparazione della classe dirigente toscana: ad esempio, fra i membri di quest’epoca si ricorda Giorgio Viviano Marchesi Buonaccorsi, celebre soprattutto per le opere di carattere storico. La legge sulla riorganizzazione della nobiltà toscana e dei feudi del 1749 si ispirò proprio agli statuti e ai principi dell’Ordine cavalleresco.

Un primo tentativo di soppressione si ebbe in epoca napoleonica, il 9 aprile 1809, ma Ferdinando III di Lorena lo ripristinò il 22 dicembre 1817 con alcune modifiche statutarie. Alla vigilia dell’Unità italiana l’Ordine era composto da 34 Priori, 23 Balì, 49 Cavalieri con commenda familiare, 177 Cavalieri per Giustizia, 187 Cavalieri collatarii di commende di Grazia e 12 Collatarii autorizzati senza commenda per un totale di 482 membri oltre il Gran Maestro, e i Cavalieri di Gran Croce. Tra gli ultimi esponenti illustri del periodo granducale si ricordano il Principe Colloredo-Mansfeld, i Marchesi Malaspina, Emanuele Fenzi, il principe Andrea Corsini, Stanislao Grottanelli De Santi, i Principi Poniatowski, il Conte Francesco De Larderel, Alessandro Carega, i Conti della Gherardesca, l’avvocato Ubaldo Maggi, il Conte Demetrio Finocchietti, Cosimo Ridolfi, Giovanni Baldasseroni, Guglielmo De Cambray Digny, l’avvocato Primo Ronchivecchi, il Conte avvocato Luigi Fabbri.

Un nuovo tentativo di soppressione dell’Ordine avvenne nel 1859, con l’unificazione della Toscana al Regno di Sardegna, ma ebbe valenza solo agli effetti patrimoniali, perché l’Ordine di Santo Stefano, quale ordine religioso fondato “in perpetuo” direttamente da un papa, può essere soppresso solo con bolla papale e quindi è a tutt’oggi pienamente operante. Oltretutto l’Ordine era legato alla dinastia regnante su Toscana che aveva avuto il Gran Magistero “in affidamento” e quindi allo Stato e al suo territorio. Sino a Ferdinando IV l’Ordine continuò ad essere concesso.

Il 20 dicembre 1866 Ferdinando IV ed i suoi figli rientrarono nella Casa Imperiale e la Casa di Toscana smise di esistere come casa reale autonoma, venendo riassorbita da quella imperiale austriaca; a Ferdinando fu permesso di mantenere la sua fons honorum vita natural durante, mentre i figli divennero solo Principi Imperiali (Arciduchi/Arciduchesse d’Austria) e non più principi/principesse di Toscana: Ferdinando IV abdicò ai diritti dinastici al Granducato di Toscana (1870) a favore dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria e pertanto anche i suoi discendenti persero ogni diritto dinastico sulla Toscana. Il Gran Magistero dell’Ordine di Santo Stefano cessò invece con la morte di Ferdinando IV. L’imperatore Francesco Giuseppe I (1830-1916) aveva infatti proibito, dopo la morte del granduca Ferdinando IV avvenuta nel 1908, di assumere i titoli di granduca o di principe o principessa di Toscana.

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